di C. Bartocci, S. Donnari New York 2015
La comunicazione non verbale, corporea, è da sempre stata centrale in psicoanalisi. In particolare nel trattamento di pazienti psicotici.
“In tutti gli esempi riportati dalla letteratura psicoanalitica sulla psicosi balza agli occhi questo caratteristico modo indiretto di ‘dare notizia di Sè’ sia con le parole sia con i gesti e gli atteggiamenti, attraverso le stravolte vicissitudini dei propri arti, dei propri organi, delle proprie parti corporee vissute come entità a se stanti, proiettate al di fuori ma pur sempre legate al Sè dal filo dell’angoscia […] In molti casi da me trattati, se non in tutti, il contatto iniziale con il paziente psicotico avveniva quando io stesso avvertivo delle sensazioni somatiche molto pregnanti…”(G. Benedetti, Paziente e analista nela terapia delle psicosi, Feltrinelli, 1979, p.223).
Il controtransfert che, con il paziente psicotico, deve precedere ed anticipare il transfert, attraverso un “gemellaggio somatico” che attiva forme arcaiche di identificazione, rappresenta, nella teorizzazione di G. Benedetti, il motore per la ricostruzione spazio-temporale e storica della “disgregazione dell’immagine del corpo”.che caratterizza il vissuto del paziente psicotico.
I metodi d’intervento elaborati dall’Istituto di psicoterapia psicoanalitica esistenziale “G. Benedetti” (“Disegno speculare progressivo” (Peciccia M. et altri) “Arte terapie e Terapia amniotica” (Donnari S., Peciccia M. et altri) evidenziano il ruolo centrale attribuito alle componenti somatiche nelle dinamiche di transfert/ controtransfert (G. Benedetti ibidem, C. Bartocci a cura di “G. Benedetti, Una vita accanto alla sofferenza mentale, F. Angeli 20102). Queste forme di approccio non verbale risultano adeguate al trattamento non solo di pazienti psicotici ma di tutti quei casi caratterizzati da carente capacità di mentalizzazione (P. Fonagy, M. Target). Forme non verbali di comunicazione risultano fondamentali anche rispetto alla possibilità di recuperare materiale, eminentemente traumatico o comunque legato ad esperienze precoci, depositato nell'”Inconscio non rimosso” (M. Mancia).
La ricerca in psicoanalisi non può ignorare la pervasività della comunicazione CON /DEL corpo che caratterizza la società contemporanea. Le scoperte neuroscientifiche (memoria implicita, neotenia, il sistema del rientro con Edelmann, le correlazioni tra neuroni specchio ed empatia con Rizzolati et al.) consentono ora la realizzazione di quel “Proggetto” a cui Freud fu costretto a rinunciare.
Anche o specialmente il corpo, e quindi le forme in cui si realizza la sua comunicazione, è permeato dallo Zeitgeist e spinto verso un preciso Zeitstyle (Hegel).
A partire dagli anni ’60 una sempre crescente diffusione dei DCA ha sfidato la psichiatria attraverso l’esibizione di giovani corpi condannati a morte da quel delirio che M. Selvini Palazzoli ha descritto come “freddo”. Le “psicosi fredde” (Kestemberg, Decobert) diventano “complesse” per la tassonomia psichiatrica, specialmente nei casi in cui ( Dca per l’appunto) la proiezione sul corpo degli aspetti inelaborabili del Sè salva l’Io sia dalla depressione che dalla schizofrenia, consegnando al medico un paziente assolutamente lucido e lucidamente riluttante a farsi sottrarre i propri “salvifici” sintomi.
Di nuovo quindi parti corporee vissute come entità a se stanti legate al Sè unicamente dal filo dell’angoscia. Di nuovo il corpo costretto a dare notizia di quell’Unheimlich che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che invece è affiorato.
“Che ci piaccia o no, siamo tutti casi terminali “
(Kronenberg, Lemma p. 175) e la realtà della morte rivela che il nostro corpo è un mero prestito. La gratitudine per un dono così effimero richiede il lavoro del lutto (Freud, 1916).
La capacità di riconoscere la realtà del corpo e i suoi inevitabili cambiamenti nel corso del tempo fonda una condizione di salute psichica. Quando questa integrazione non risulta possibile il rapporto con la realtà si lacera e devono essere ricercate soluzioni psicotiche, frequentemente espresse attraverso il corpo. Un modo per bypassare il lavoro psichico necessario per “esistere nel tempo” (Bell 2006 lemma 178) è quello di mantenere una scissione mente/corpo attraverso varie forme di modificazioni corporee.
Dalla fine degli anni ’90 assistiamo ad un incremento esponenziale di procedure atte a produrre ogni genere di trasformazione. Percing, tatoos, scarnificazioni di diversa entità sono ormai diventati parte del “look”.
Dal 1997 l’aumento di richieste di procedure estetiche nel mondo è stato del 465%.
In particolare, nel decennio 1997-2007 gli interventi si sono triplicati tra la popolazione giovane (18-20 anni)
Analogo incremento si osserva rispetto alla richiesta di interventi di chirurgia plastica.
La chirurgia estetica è profondamente seduttiva perchè parla direttamente alla fantasia inconscia onnipotente di poter reinventare il proprio Se (Lemma 131) evitando la consapevolezza dell’inevitabiltà della morte e il lavoro del lutto.
Perchè sprecare anni in psicoterapia cercando un senso quando il chirurgo può ricostruire un nuovo Sè in poche ore e spendendo meno?
“Come lo spaventapasseri che vuole un cervello, il boscaiolo di latta che vuole un cuore e il leone codardo che vuole coraggio noi tutti seguiamo la strada di mattoni gialli alla ricerca di un oggetto trasformazionale (Bollas 1987) che ci doni una forma desiderabile.” (Lemma A., ibidem)
Oggi il Mago di Oz è stato soppiantato dal chirurgo plastico.
Alcuni dati relativi al transfert sono rinvenibili. Interessante sarebbe poter seguire l’andamento delle dinamiche di controtransfert.
Per quanto riguarda i pazienti non sorprende osservare che il 50% dei soggetti con diagnosi di BDD dopo l’operazione trasferiscano la loro preoccupazione su un’altra parte del corpo.(Veale 2000) e la delusione, frequentemente espressa con intensa violenza , sul chirurgo, rimettendo in scena l’esperienza vissuta con un oggetto interno mai sufficientemente soddisfacente con cui sono identificati. (Lemma 182)
Le ricerche in quest’ambito sono ambigue: la percentuale di pazienti con BDD tra quelli che richiedono interventi chirurgici varia dal 9 al 53% (Ercolani et altri 1999; Phillips et al 2000; Aouizerate et al 2003). E’ comunque chiaro che la percentuale di pazienti con BDD è molto più rappresentata che nella popolazione generale e che le richieste di interventi non usuali sono generalmente associate a significative problematiche psicologiche (Edgerton et al 1990).
Un ampio studio epidemiologico condotto negli Stati Uniti e in Europa ha individuato una relazione tra ricostruzione del seno e suicidio. Questo studio evidenzia casi di suicidio due tre volte maggiori in pazienti operate al seno che in pazienti che si sono sottoposte ad altri tipi di intervento (Sarwer et al. 2006,136) . Le motivazioni non sono chiare ma l’ipotesi maggiormente accreditata è che l’aumento delle dimensioni successivo all’intervento non corrisponda (sia in eccesso che in difetto) alle aspettative e che la delusione produca vissuti depressivi prima e tentativi di suicidio poi. Questa ipotesi è supportata da altri studi che evidenziano una maggiore prevalenza di pregressi ricoveri in ospedali psichiatrici delle donne che richiedono l’intervento al seno rispetto a donne che chiedono di essere sottoposte ad altri interventi (Jacobsen et al. 2004).
“Il chirurgo taglia e ridà forma a un corpo reale ma per il paziente sono sempre un corpo e un Sè fantasmatici a finire sotto il bisturi (136 Gillmann 1999)
Coscientemente (i pazienti ) credono di chiedere al medico il “privilegio dell’anonimato” (Davis 1993) o un prestito effimero che consenta loro di esistere senza sentirsi invasi dallo sguardo dell’altro, cancellando quel “troppo” di storia che il corpo inevitabilmente racconta.
Coscientemente il chirurgo interviene sper modificare la forma del corpo.
Sintomi positivi e negativi. Deliri, non sempre freddi. Organi bersaglio.
La pelle per i BDD; gli organi a valenza sessuale per i DCA. Il corpo, tutto, in casi estremi, non più così rari.
“Ricordo ad esempio una seduta iniziale con una paziente trentenne che cominciava il discorso in modo pressochè logico per passare poi gradualmente nel corso della seduta ad un dissolvimento delle frasi che si facevano tronche, poi delle parole che venivano frantumate in sillabe, fino all’emissione di suoni inarticolati. Contemporaneamente la paziente si riversava sul lettino come una marionetta non più sostenuta dai fili del burattinaio; le membra erano disarticolate e sparse come se fossero fratturate. In quella seduta, la decima, mi avvenne di entrare in uno stato di obnubilazione mentale simile al dormiveglia, con frammenti di immagini e di parole nella testa e la sensazione che la mano destra non mi appartenesse più, che i piedi staccati fluttuassero nello spazio e che il tronco fosse diventato pesantissimo e addirittura appiattito sulla poltrona, come attirato da una forza di gravità superiore a quella normale. Questa esperienza intensissima che giunse a spaventarmi durò alcuni minuti. Quando tornai alla realtà vidi la paziente che mi guardava fissamente; le chiesi allora come era potuto avvenire che il suo corpo si fosse così rotto.
‘Rotto, rotto…Il bambolotto – Clara è contenta – io ho un buco, buco vuoto’
Le chiesi come potevamo riempire il buco; risposta: ‘Io ho il buco…Clara non ha buchi.’
[…] riuscimmo a ricostruire l’episodio traumatico […] quando la paziente aveva 4 anni, Clara, sorella maggiore prediletta dalla madre, aveva rotto la sua bambola, che aveva perso il braccio destro e le gambe. La madre prese un vecchio bambolotto della figlia minore, a cui questa teneva molto, e gli staccò gli arti per attaccarli al corpo dell’altra bambola. La mia paziente si ritrovò con un tronco in cui si aprivano dei buchi, nei quali per lungo tempo infilò stracci, pezzi di carta, mollica di pane, il tutto molto stipato, nella speranza di veder ricrescere gli arti mancanti. L’identificazione con il bambolotto mutilato e vuoto divenne totale e segnò la sua condizione psicotica” (G. Pankow in Benedetti p.224)
“Chi pensava che con Valeria Lukyanova avessimo visto ormai tutto nel mondo delle bambole viventi, si sbagliava di grosso. Anche questa volta dall’Ucraina, arriva infatti un’altra modella che rischia di soppiantare la biondissima Valeria. Lei si chiama Dominika 777, nome d’arte di Olga Oleynik, ed è l’altra barbie umana. Come la rivale, anche lei si è sottoposta a decine e decine di interventi chirurgici per diventare così come oggi la vediamo e diversamente da quanto si potrebbe pensare, nei confronti di Valeria non nutre alcuna rivalità. Anzi, forse perchè accomunate dallo stesso percorso, le due sono particolarmente amiche. Concorrono entrambe per l’immaginaria fascia di Living Doll. E la sfida per sceglierne una è parecchio ardua.”
Il caso di Valeria Lukyanova sta facendo molto discutere l’opinione pubblica, non solo del suo paese, sui limiti a cui è lecito possa spingersi la chirurgia estetica. Valeria Lukyanova è una 21enne di Odessa che dopo aver giocato per anni, da bambina, con le sue Barbie, ha deciso di diventare una di loro.Secondo l’Huffington Post, Valeria avrebbe speso più di 800 mila dollari in interventi di chirurgia plastica per trasformarsi nella bambola più famosa del mondo. Una pelle di porcellana, due occhi da cartoon, un vitino da vespa, un seno perfetto, un nasino affilato e due labbra a canotto: la Lukyanova sembra (o è?) fatta di plastica.”
“Quando compresi appieno ciò che era accaduto, anzi che accadeva in continuazione, poichè la paziente si trovava perennemente imprigionata nel vissuto del bambolotto mutilato e vuoto, anche se imbottito di sterili stracci, intrapresi la ricostruzione dello schema corporeo usando due mezzi: la manipolazione del suo corpo e il collage[…]altre volte fabbricavamo con la carta le parti del corpo umano che poi le facevo incollare su un foglio in modo da ottenere un corpo intero: all’inizio questo lavoro era molto difficoltoso per la paziente: lo schema corporeo era completamente disorganizzato, per cui piazzava un piede da una parte del foglio, il tronco in mezzo, il braccio in un altro angolo e così via. Ma riuscì gradualmente[…]ad avvicinare le parti scisse e dar loro una disposizione sempre più vicina alla norma, finchè ottenne il corpo intero e riunito in tutte le sue parti[…] aggiungo solo che l’esito di questa terapia fu positivo; inoltre la catamnesi presenta un dato interessante: la paziente si è diplomata infermiera e svolge il suo lavoro in un reparto di ortopedia.” (G. Pankow, ibidem)