La diagnosi descrittiva deve comunque essere attualmente presa in considerazione. Sia pure con un approccio critico. Riportiamo quindi di seguito le definizioni fornite dal DSM-V. Precedute da alcune considerazioni che ne evidenziano i maggiori limiti.
La pubblicazione nel 2013 del DSM-V (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 5° edizione ha provocato – forse ancor più delle edizioni precedenti – moltissime polemiche. Persino i due direttori della Task Force che aveva redatto i DSM precedenti, Robert Spitzer e Allen Frances, hanno attaccato pubblicamente l’impostazione del nuovo DSM. In particolare, si denuncia il DSM come strumento principale di una crescente psichiatrizzazione della popolazione.
Già alcuni autori (Carlat 2000; Moynihan & Cassels 2005; Whitaker 2010) avevano messo in evidenza il vistoso abbassamento delle soglie di molte diagnosi nei DSM precedenti. Ma è soprattutto col DSM-V che molte più persone risultano “disordinate”, termine che ha sostituito il più crudo “malate”.
[Preferendo tradurre con disordine – piuttosto che con disturbo, il termine disorder il DSM segue una tendenza del discorso medico generale, che al termine disease – malattia o infermità – oggi preferisce “disordine”, un termine che rinvia a ordine e ha una connotazione etico-politica.]
Emblematico per comprendere questo rischio è Il Disturbo Disforico Premestruale inserito tra i disturbi depressivi. Ironicamente si potrebbe dedurne che ogni donna in età fertile è “disordinata” per almeno una settimana al mese e che potrebbe avvalersi dell’incapacità di intendere e volere per qualunque atto commesso nella condizione succitata. Evidente a chiunque è come questa precisa (ossessiva) elencazione di sintomi faccia scomparire i soggetti. Sia il paziente che il terapeuta. Il quale, seguendo questo orientamento, dovrebbe limitarsi a stilare una lista di segni senza minimamente ascoltare il proprio transfert e la sua esperienza clinica. L’intento sembra infatti quello di arrivare alla formulazione di diagnosi che risultino invariabili cioè del tutto indipendenti dal clinico esaminatore. La ricerca di neutralità propone interviste fondamentali per la salute tra “soggetti che non sanno chi sono” e sembra voler annullare qualunque conoscenza scientifica relativa al funzionamento delle relazioni umane.
Come precedentemente descritto (Disturbi della relazione Primaria) nemmeno con un neonato le relazioni possono essere indipendenti dalle caratteristiche personologiche dei due partecipanti.
Il DSM crea un’epidemia artificiale di malattie mentali nella popolazione (Angell 2011a, 2011b).
Lo riconosce persino Frances (2013), responsabile del DSM-IV: ammette che quest’ultimo ha favorito la super-medicalizzazione soprattutto di molti bambini attraverso la categoria di disturbo bipolare nell’infanzia e nell’adolescenza. In effetti, grazie al DSM-IV le diagnosi di disturbo bipolare tra bambini e adolescenti sono aumentate di quaranta volte! Mentre gli adulti con disordine bipolare sono solo raddoppiati.
Negli ultimi 50 anni le persone diagnosticate come psicotiche sono quintuplicate nelle società iper-industriali. Le diagnosi di autismo sono aumentate di venti volte. Oggi si è convinti che in molti paesi (Italia compresa) ci siano otto autistici ogni 10.000 bambini sotto i cinque anni. I diagnosticati con deficit di attenzione, ovvero gli iperattivi, sono triplicati nella popolazione.
Ciò comporta, tra l’altro, un aumento straordinario dei costi per il trattamento di disordini che appaiono sempre più frequenti. Ciò, si fa notare, favorisce gli interessi delle case farmaceutiche: dato che gli psichiatri con sempre maggior frequenza diagnosticheranno disordini mentali, allora sempre più prescriveranno psicofarmaci, dato che, ormai, la cura psichiatrica (della psichiatria descrittiva) tende a coincidere con la prescrizione di farmaci.
Si assiste inoltre ad un aumento costante del numero di disordini. Nel 1880 la psichiatria americana distingueva solo sette categorie fondamentali di patologie mentali (follia semplice; follia epilettica; follia paralitica; demenza senile; demenza organica; idiozia; cretinismo). Nel corso del tempo, fino al 1952 – uscita del DSM-I – si passò a 106 disordini. Col DSM-II (1968) arriviamo a 182; col DSM-III (1980) a 265; nel 1994, col DSM-IV abbiamo sfondato la cifra di 350 disordini.
I DSM sono una bolla che col tempo si gonfia sempre più anche fisicamente.
Passiamo dalle 132 pagine del DSM-I alle 494 pagine del DSM-III, alle 947 pagine del DSM-V. E’ questa dilatazione segno del progresso della psichiatria? Secondo gli oppositori questi aumenti segnano solo la crescente medicalizzazione della popolazione. La quale assume varie forme a seconda dei paesi. E nonostante la missione essenziale dei DSM fosse quella di omologare le diagnosi in tutto il mondo, come è accaduto nella medicina non mentale, risultano ampie disparità diagnostiche tra paesi.
In particolare va messa in dubbio la supposta “scientificità” dei DSM. Basti pensare che, quando nella Task Force del DSM c’era un dissenso sulle classificazioni morbose, si procedeva a votazioni tra gli psichiatri consulenti, per cui di fatto il DSM-V ha recepito i concetti e le definizioni che hanno preso più voti (Spitzer 2001). E certo la votazione non può essere considerata un metodo scientifico.
I DSM sono il risultato di una negoziazione “politica” tra correnti, scuole, teorie, indirizzi, interessi, ecc. dominanti.
Interessante è ad esempio notare che a partire dal 1974, con la settima edizione del DSM-II, i manuali diagnostici più importanti non parlano più di omosessualità. Questa esclusione non è l’effetto di una qualche nuova scoperta, neurologica, fisiologica o psicologica che sia. Non c’è stata alcuna vera scoperta.
L’eliminazione dell’omosessualità è solo l’effetto di un cambiamento etico e politico. Il manuale in questo caso non ha fatto altro che adeguarsi a una mutazione generale della mentalità. Un discorso analogo andrebbe fatto per prestazioni sessuali che fino a pochi decenni fa erano considerate “perverse” anche e soprattutto dagli psichiatri.
In Gran Bretagna gli atti omosessuali erano atti criminosi fino al 1961. Anche Oscar Wilde e Alan Turing sono state vittime di queste norme penali. Nel 1961 nel Regno Unito viene depenalizzata l’omosessualità, tredici anni dopo la psichiatria anglo-americana dichiara l’omosessualità non più patologica. Le due derubricazioni quasi si accavallano.
Così come quando certi codici proibiscono l’uso personale di certe sostanze, ad esempio della cannabis, lo Stato legifera di conseguenza e a questa criminalizzazione o semi-criminalizzazione dell’uso di certe sostanze fa eco la sezione DSM dei “Disordini di Dipendenza e Legati all’Uso di Sostanze”. Il DSM ha l’accortezza di mettere sullo stesso piano sostanze illegali in molti paesi (cannabis, fenciclidina e allucinogeni, oppiacei, stimolanti come amfetamine e cocaina) e altre del tutto legali (alcool, inalanti, sedativi ipnotici e ansiolitici, tabacco, caffeina)
Anche per le dipendenze si vede emergere una omologia tra diagnostica DSM e intervento legale, civile o penale. Ad esempio, il DSM-V annovera come solo caso di “Dipendenze Non Connesse a Sostanze” la passione per il gioco. Perché solo questa dipendenza non tossica e non, ad esempio, la sessuo-dipendenza o la bulimia, che non situa nell’ambito delle Dipendenze, ma dei Disordini Alimentari?
E’ presumibile che il gioco sia stato prescelto come unica Dipendenza Non Connessa a Sostanze semplicemente perché, tra tutti i piaceri coattivi, è quella che può portare a problemi di ordine legale.
La classificazione offerta dal DSM pare considerare necessario e sufficiente per descrivere una patologia. l’esistenza di qualcosa di disfunzionale: si suppone cioè che ci sia un funzionamento mentale sano, non disordinato, dei “processi psicologici, biologici e di sviluppo”, e che invece ci sia materiale per la psichiatria quando questi processi non funzionano più come dovrebbero.
Il concetto di funzionamento è non può prescindere da un contesto e da una precisa visione delle cose. Quindi, sullo sfondo, emerge la visione di quello che, attualmente, certe società considerano un “adeguato funzionamento”. E nemmeno questa può essere considerata una visione scientifica.
Inoltre, il DSM-V distingue in modo banale sofferenze “culturalmente giustificate e attese” – come il vivere un lutto severo per la scomparsa di una persona cara o per una sconfitta nella vita – da sofferenze “disordinate”. Ma quale è il criterio di questa distinzione? Fino a che punto la sofferenza per una perdita o una sconfitta è normale e a partire da quale momento diventa patologica? Se si sostiene che il depresso che si suicida soffre di una disfunzione, si dà dogmaticamente come evidente il fatto che un essere umano “funziona bene” quando non è depresso. Ma nella “melanconia” sono stati individuati i semi creativi che hanno generato una cospicua parte della nostra cultura e c’è al contrario chi sostiene (E. Severino) che il depresso è lungimirante. Ma con queste osservazioni non facciamo che ribadire quanto asserito a proposito della diversa visione dei sintomi tra la psichiatria descrittiva e la psichiatria psicodinamica. Secondo i DSM quindi si è “disordinati” nella misura in cui non si funziona più secondo una norma implicita di vita “normale”.
Il DSM-V cerca di distinguere “un comportamento (ad esempio, politico, religioso o sessuale) che sia socialmente deviante” ma non patologico da una parte, da un comportamento socialmente deviante e patologico dall’altra. Se ad esempio, sono omosessuale in una società dove l’omosessualità è fortemente riprovata e anche criminalizzata (come in molti paesi islamici), certo mi esporrò a gravi rischi e andrò incontro ad “afflizioni e menomazioni” anche molto serie, ma non sono un caso psichiatrico. Se invece, come il presidente Schreber (un noto caso commentato da S. Freud) sono convinto che sono un uomo che si è trasformato in donna grazie a dei miracoli divini dato che Dio copula con me come donna, questo certo mi mette in conflitto con il sistema cognitivo della mia società, che non crede a questo tipo di trasformazioni miracolose; però in questo caso sono un paziente psichiatrico.
Ma appunto, quale criterio mi fa distinguere un caso dall’altro?
I principii discriminativi che fanno concludere in due modi diversi nei due casi non vengono mai enunciati.
Il DSM-V considera la Schizofrenia, la Catatonia, la Bipolarità e il Disordine di Personalità paranoide, categorie evidentemente riprese dalla nosografia di Kraepelin e Bleuler. Il concetto di schizofrenia fu infatti elaborato da Bleuler nel 1908, rielaborando la “demenza precoce” di Kraepelin. Anche il termine e la descrizione della catatonia furono elaborate da Kraepelin. L’idea di Personalità paranoide sviluppa la nozione kraepeliniana di paranoia, così come il Disturbo Bipolare deriva dalla psicosi maniaco-depressiva di Kraepelin – che a sua volta aveva ripreso la folie circulaire dei francesi – tutte elaborate tra 1883 e 1915. Questo perché le ricerche secondo i protocolli scientifici presuppongono già queste categorie.
E anche quando il DSM innova rispetto alla tradizione, la maggior parte di queste innovazioni non sono frutto diretto di esperimenti scientifici.
Non è nemmeno vero che, volendo essere a-teoretico, il DSM sia basato su statistiche biologiche (Kirk & Kutchins 1992) e i curatori dichiarano di non aver tenuto conto degli sviluppi delle ricerche di neuroscienza cognitiva, brain imaging, epidemiologia, genetica, e prevedonodi tenerne conto in futuro (will require) per procedere a cambiamenti.
Il DSM quindi riconosce i propri limiti “scientifici” e dichiara di essere disposto a una auto-revisione. E in effetti molte critiche provengono proprio da chi ne denuncia la non scientificità. Così il NIMH (2013) – America’s National Institute of Mental Health – fa notare (giustamente) che il DSM-V non si basa su nessuna misura oggettiva di alcunché. Steeves Demazeux, filosofo della scienza, lo descrive come una “tigre di carta”.
In realtà le classificazioni DSM si basano essenzialmente – proprio come quelle classiche, di Krafft-Ebing, Kraepelin, Bleuler, ecc. – su quel che le persone fanno e dicono.
La contraddizione fondamentale di questo progetto è la sua pretesa di essere a un tempo “scientifico” e “ateorico”. Sin dagli anni ‘80 i compilatori del DSM hanno voluto ignorare tutte le teorie eziopatogenetiche dei disordini mentali. Hanno puntato all’osservazione empirica clinica pura: affidarsi solo ai dati dell’esperienza, così come risultano al clinico “senza pregiudizi”. Questo empirismo ateorico avrebbe dovuto portare la psichiatria a diventare sempre più una specialità medica come le altre, Evidence Based Medecine. Possiamo dire che questo progetto è fallito.
Fallito perché si basa su un fraintendimento profondo di quel che ha reso scientifica parte della medicina. Perché quando si rinuncia programmaticamente a formulare teorie, o a confrontarsi con teorie già formulate, si rinuncia di fatto a ogni ambizione scientifica.
Che il DSM allontani la psichiatria dalla medicina scientifica è dimostrato dal fatto che, dal DSM-III in poi, il Manuale ha adottato un criterio “politetico” e non “monotetico”.
Scrive Migone (2013, p. 570), nel sistema monotetico uno o più criteri diagnostici devono essere obbligatoriamente presenti per poter fare diagnosi; la polmonite tubercolare, ad esempio, non può esser diagnosticata solo con la febbre, la tosse, un riscontro radiografico, ecc. – che sono criteri diagnostici che possono appartenere anche ad altre malattie – ma necessariamente dal reperto del bacillo di Koch nell’espettorato, senza il quale, secondo un approccio monotetico, non è possibile fare diagnosi di polmonite.
Nella “democrazia diagnostica” del DSM vige invece un principio politetico: tutti i tratti patologici hanno eguale valore, non c’è alcuna gerarchia tra loro. Quel che conta per emettere una diagnosi è che ci sia un numero minimo di questi tratti (numero arbitrariamente deciso dal DSM per ogni “disordine”). In medicina la definizione della malattia tende a coincidere con la sua eziologia, mentre i DSM hanno scelto di escludere ogni considerazione di tipo eziologico.
[1] Edito dall’American Psychiatric Association, Washington DC, London. Tr.it. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina, Milano, 2014.
[2] Spitzer (2011), Frances (2010; 2010-13; 2012b; 2013), Spitzer & Frances (2011).
Angell, M.:(2011a) “The Epidemic of Metal Illness: Why?, The New York Review of Books, 58, 11, pp. 20-22.(2022b) “The illusions of psychiatry”, The New York Review of Books, 58,12, pp. 20-22.
Demazeux, S. (2013) Qu’est-ce que le DSM?, Itaque, Paris.
Frances, A.:(2010) “The DSM-5 field trial proposal. An expensive waste of time”; http://www.psychiatrictimes.com/dsm-5/content/article/10168/1565512.
(2010-13) “DSM-5 I distress. The DSM’s impact of mental health practice and research, Psychology Today; http://www.psychologytoday.com/blog/dsm5-in-distress.
(2012a) « Two who resigned from DSM-5 explain why », Psychology Today, November 11, 2012. http://www.psychologytoday.com/blog/dsm5-in-distress/201207/two-who-resigned-dsm-5-explain.why.
(2012b) “DSM-5 is guide not Bible – Ignore its ten worst changes”; Psychology Today, December 2, 2012; http://www.psychologytoday.com/blog/dsm5-in-distress/201212/dms-5-is-gui….
(2013) Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie, tr.it., Bollati Boringhieri, Torino, 2013.
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La definizione di disturbo di personalità compare per la prima volta nel DSM-IV, sebbene i disturbi di personalità siano stati descritti in un asse specifico (II asse) nel DSM III.
Un disturbo di personalità è definito come un modello abituale di esperienza o comportamento che si discosta notevolmente dalla cultura a cui l’individuo appartiene e si manifesta in almeno due delle seguenti aree: esperienza cognitiva, affettiva, funzionamento interpersonale e controllo degli impulsi.
Il concetto di “disturbo” sembra ormai superato: esso, come la personalità detta “normale”, si forma dai primi anni di vita fino all’età adulta, è quindi ad un tipo o a un modello di personalità a cui bisogna riferirsi, ad es. “tipo di personalità istrionica” o “modello di personalità istrionica”.
Questo perché non si tratta di una personalità “normale” che ad un certo punto diventa “disturbata”, ma una personalità che a seguito di diversi fattori (ambientali, biologici, traumatici, ecc.) può assumere schemi e modelli disadattivi.
Il pattern deve presentarsi in un’ampia gamma di situazioni sociali e comportare una condizione di disagio, personale, sociale e lavorativo, clinicamente significativa,
La disadattività può insorgere nella prima metà della vita adulta ma può essere visibile già nell’infanzia, generalmente è stabile nel tempo e presenta un carattere inflessibile e pervasivo nelle diverse aree della vita, inoltre, comporta conseguenze in termini di sofferenza soggettiva e limitazioni nelle relazioni e nell’area lavorativa.
Dal punto di vista eziopatogenetico i disturbi di personalità sembrerebbero associati a eventi potenzialmente traumatici subiti in età molto precoce. La diagnosi psicodinamica segue considerazioni differenti rispetto alla diagnosi classificatoria del Manuali Statistici e Diagnostici dei disturbi Mentali.
In un’ ottica psicodinamica i vari disturbi di personalità descritta corrispondono a problemi vissuti in età estremamente precoce i cui ricordi ed effetti risultano estremamente difficili da modificare in quanto depositati in quello che abbiamo definito come l’INCONSCIO NON_RIMOSSO:
Secondo un’ottica psicodinamica i disturbi psichici si situano lungo un continuum cha va dalle situazioni più gravi (che immaginiamo prodotte più precocemente) come le psicosi a situazioni via via più lievi passando dai disturbi di personalità alle nevrosi.
Anche nell’ambito delle patologie psicosomatiche sembra poter essere individuato un analogo continuum per cui troviamo patologie gravissime ad un estremo (sindrome di kron ad es) e patologie lievi (colon irritabile) all’altro estremo.
Immaginandosi all’interno di questo continuum e quindi più simile che non diverso dal proprio paziente, il terapeuta psicodinamico cerca di comprendere il disagio dell’altro identificandosi con lui ed immergendosi in una relazione che mette in gioco il mondo interno di entrambi. Per la psichiatria descrittiva invece la diagnosi viene formulata attraverso l’attenta raccolta e descrizione di segni e sintomi.